Le forme e i colori del paesaggio urbano negli scatti di Alessandro Barattelli



L’importanza degli artisti per il mondo è qualcosa da non sottovalutare, e come avete potuto notare il Darlin ritaglia sempre un certo spazio per dar loro voce ed espressione. Tra una ricerca e l’altra e un occhio sempre fisso su Behance, ci è capitato di finire su un profilo interessante che non poteva passare inosservato: quello di Alessandro Barattelli.

Originario dell’Aquila, incarna un talento fotografico tutto all’italiana rifinito da quella freschezza giovanile sempre più difficile da trovare, ma con cui Barattelli ci delizia, offrendoci scatti unici che sembrano giocare coi colori e le forme geometriche, fotografie ben studiate ma allo stesso tempo spontanee. I suoi lavori ci hanno incuriosito talmente tanto da contattarlo per un’intervista che gentilmente ci ha rilasciato.

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Sembra che il cielo azzurro ti attiri particolarmente, è un modo per dirci che vuoi scappare dalle metropoli?

Dunque, il cielo è per me quell’elemento che mette in risalto i soggetti (le architetture) nelle mie fotografie; ricopre un ruolo da protagonista a tutti gli effetti. Non amo particolarmente fotografare quando non c’è una giornata serena, come puoi notare dal mio portfolio, gli scatti realizzati in giornate nuvolose si possono contare su una mano. Al contrario, invece, il cielo cupo e terso lo ritengo necessario in alcune fotografie più “malinconiche” e cupe, come, ad esempio, quelle che ho realizzato nell’aeroporto dismesso di Tempelhof (Berlino) che presto saranno disponibili sulla mia pagina Behance e sul mio sito.

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Hai fatto un progetto incentrato su Milano, come la definiresti architettonamente parlando?

Milano è una città fantastica che sta subendo un’evoluzione architettonica notevolissima negli ultimi anni. E’ una città che ha una grande storia alle spalle che va a sposarsi con delle influenze moderne come succede per forza di cose in tutte le grandi città, come ad esempio Londra. Sono rimasto molto colpito dallo sviluppo che ha avuto la zona di Porta Nuova-Porta Garibaldi negli ultimi anni; sono salito a Milano da Roma diversi mesi fa dopo anni che non andavo. E stato un gran bel colpo d’occhio trovarmi in piazza Gae Aulenti e sentirmi quasi avvolto da nuove costruzioni. Un plauso speciale lo dedico all’architetto Stefano Boeri per la realizzazione del suo “Bosco Verticale”, ho letto molte critiche al riguardo ma trovo sia una grande innovazione da città con una grande mentalità europea come Milano.

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Ci sono città più facili da fotografare?

Sì, ci sono città più facili da fotografare e ci sono città anche molto più difficili. Parto da quest’ultima frase perché è anche la città dove vivo, ovvero Roma. Penso che possiamo definire tutti quanti Roma come la città più bella del mondo ma, fotograficamente parlando, resta il mio tallone d’Achille. Roma è una città che si presta più che all’obbiettivo di una fotocamera a quello di una macchina da presa. Quando c’è una macchina da presa e c’è l’occhio esperto di qualcuno, Roma si mette in posa come fosse un pavone, e in questo Paolo Sorrentino con la sua Grande Bellezza docet. Ma torniamo a noi e alla tua domanda. Sì, ci sono città che si prestano a farsi fotografare, ci sono città che sembra siano nate per fare da sfondo a fotografie incredibili, tutto dipende dal genere di foto che si deve scattare. Io ho cominciato facendo street photography e per questa tipologia credo che New York sia la città per antonomasia. Le persone che trovi a NY, tra gli imponenti grattacieli di Manhattan ed i sobborghi più nascosti di Brooklyn, non le trovi da nessun’altra parte. Per il mio genere di fotografia il non plus ultra delle città è Berlino. Berlino è un mix di colori, palazzi moderni e costruzioni avanguardiste senza rivali, dopo di lei seguono tante altre città della Germania.

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Noti dettagli che la maggior parte delle persone non coglierebbero, da dove nasce questa tua particolarità e cosa ti spinge a fotografarli? C’è un’idea di fondo?

Penso che in ogni campo artistico le persone si dividano in due gruppi: coloro che hanno l’estro artistico e chi non lo ha. E poi ci sono io. Ovviamente non starò qui a parlare di me, lascerò giudicare gli altri sulle mie fotografie. Io ho intrapreso questo percorso partendo da una grandissima passione che negli anni è stata un continuo crescendo. Io ogni giorno, e spesso anche di notte, cerco di affinare sempre più il mio occhio guardando e spulciando siti di fotografi che amo. Spesso, molto spesso, mi capita di guardare fotografie che conosco a memoria in continuazione, in maniera quasi maniacale, ma lo trovo producente e stimolante perché ogni volta scopro qualche dettaglio e/o tecnica che non avevo notato la prima volta.

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Nel tuo progetto Room East 128 | Tokyo People ti sei soffermato sulle persone più che sull’architettura. Emerge sempre un senso di quiete, ma questa volta anche di isolamento. Come mai?

Ecco, come spiegavo prima, qui sono tornato un po’ agli albori ed ho unito il fascino della street photography alle particolarissime location di una “strange city” come Tokyo. Il risultato che è venuto fuori è un senso di isolamento, di silenzio, di tranquillità e, appunto, di stranezza. Queste sono esattamente le sensazioni che ti trasmettono Tokyo ed il Giappone in generale. E’ quello che provi tu, cittadino europeo, appena ti ritrovi in quel mondo completamente diverso dal tuo.

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Ci consigli un brano da ascoltare in sottofondo mentre guardiamo i tuoi lavori?

Questa è una domanda che mi piace particolarmente. Sono molto legato alla musica e in un certo senso lo sono anche le mie foto. E’ come se i miei lavori fossero un tutt’uno con i suoni. Quando scatto è come se dentro di me avessi delle musiche che mi accompagnano. Le mie foto vanno di pari passo con la musica elettronica, più precisamente la drone/ambient music, ovvero quel tipo di musica quasi monofonica, ultra minimalista. Se dovessi fare un rapporto direi che i miei scatti stanno alla fotografia come l’ambient sta alla musica. Non ti consiglierò un brano solo, bensì tre. Il primo è un brano del compositore giapponese Ryoji Ikeda chiamato Data.Matrix; il secondo è un pezzo di Jan Jelinek chiamato Do Dekor che io amo particolarmente, ed il terzo ed ultimo disco è Opto File 1 di Opiate.

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