Illustrazioni ispirate a Le Città Invisibili di Italo Calvino



Molti illustratori sono rimasti colpiti dalle fantastiche descrizioni delle città immaginarie che Marco Polo fa al Kublai Khan, nel bellissimo libro di Italo Calvino, Le città invisibili, uscito nel 1972. Con 55 descrizioni in totale, suddivise in 11 categorie (perché ci sono città che giocano con la memoria, città che giocano con gli occhi, e così via), il romanzo ha avuto un enorme successo anche fuori dai confini italiani, e molti artisti hanno cercato di dare la loro rappresentazione visiva di quei luoghi della fantasia. Di seguito potete vedere 2 versioni della stessa città, di due illustratori diversi.

Bauci:
Dopo aver marciato sette giorni attraverso boscaglie, chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato. I sottili trampoli che s’alzano dal suolo a gran distanza l’uno dall’altro e si perdono sopra le nubi sostengono la città. Ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si mostrano di rado: hanno già tutto l’occorrente lassù e preferiscono non scendere. Nulla della città tocca il suolo tranne quelle lunghe gambe da fenicottero a cui si appoggia e, nelle giornate luminose, un’ombra traforata e angolosa che si disegna sul fogliame. Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza.

Bauci, Eva Pils

Bauci, Eda Akaltun

Despina
In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta differentea chi viene da terra e a chi dal mare.Il cammlliere che vede spuntare all’orizzonte dell’altipiano i pinnacoli dei grattacieli, leantenne radar, sbattere le maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli,pensa a una nave, sa che è una città ma la pensa come un bastimento che lo porti viadal deserto, un veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non ancoraslegate, o un vapore con la caldaia che vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti,alle merci d’oltremare che le gru scaricano sui moli, alle osterie dove equipaggi di diversabandiera si rompono bottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pian terreno, ognunacon una donna che si pettina.Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma d’una gobba di cammello, d’unasella ricamata di frange luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano dondolando, sache è una città ma la pensa come un cammello dal cui bsto pendono otri e bisacce difrutta candita, vino di datteri, foglie di tabacco, e già si vede in testa a una lungacarovana che lo porta via dal deserto del mare, verso oasi d’acqua dolce all’ombraseghettata delle palme, verso palazzi dalle spesse mura di calce, dai cortili di piastrellesu cui ballano scalze le danzatrici, e muovono le braccia un po’ del velo e un po’ fuori dalvelo.Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e ilmarinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti.

Despina, Karina Puente

Despina, Ricardo Bonacho

Diomira

Diomira, Matt Kish

Diomira City, Karina Puente

Ersilia

Ersilia, Colleen Corradi Brannigan

Ersilia, Kate Weatherly

Olinda

Olinda, Maria Monsonet

Olinda, Shu Okada

Ottavia

Ottavia, Rebecca Chappell

Ottavia, Maria Monsonet

Zenobia
Ora dirò della città di Zenobia che ha questo di mirabile: benchè posta su terreno asciutto essa sorge su altissime palafitte, e le case sono di bambù e di zinco, con molti ballatoi e balconi, poste a diversa altezza, su trampoli che si scavalcano l’un l’altro, collegate da scale a pioli e marciapiedi pensili, sormontate da belvederi coperti da tettoie a cono, barili di serbatoi d’acqua, girandole marcavento, e ne sporgono carrucole, lenze e gru. Quale bisogno o comandamento o desiderio abbia spinto i fondatori di Zenobia a dare questa forma alla loro città, non si ricorda, e perciò non si può dire se esso sia stato soddisfatto dalla città quale noi oggi la vediamo, cresciuta forse per sovrapposizioni successive dal primo e ormai indecifrabile disegno. Ma quel che è certo è che chi abita a Zenobia e gli si chiede di descrivere come lui vedrebbe la vita felice, è sempre una città come Zenobia che egli immagina, con le sue palafitte e le sue scale sospese, una Zenobia forse tutta diversa, sventolante di stendardi e di nastri, ma ricavata sempre combinando elementi di quel primo modello. Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non e in queste due specie che ha senso dividere la città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.

Zenobia, Karina Puente

Zenobia, Maria Monsonet