Intervista: Ermanno Ivone e la sua ricetta per un nudo pop



Ci sono fotografi di nudo che fanno dimenticare la nudità dei loro soggetti. Ermanno Ivone no. In quello che fa non nasconde niente, è schietto, esposto. Provocatorio, non fastidioso. Come un volo pindarico di quelli spinti. Quando gli ho chiesto se gli andava di larsciarsi intervistare, mi ha risposto che preveriva prima bersi tre o quattro Vodka-Martini. Mi sono fidata. Fidatevi anche voi, vi ci troverete benissimo.

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Mi racconti con parole tue chi sei e cosa fai?

250 gr di patate lesse e 250 gr di farina.

Sono sempre il bicchiere visto pieno. Ma bastano 20 secondi, a vederlo pieno, che è già pronto da essere riempito ancora. Nel mentre, sono un cercatore d’oro, in bocca e nel futuro.

Lavoro nel campo della comunicazione e tengo alto il sorriso la mattina grazie alle persone a cui tengo sulla punta delle dita e alla fotografia: boxe neuronal-terapeutica per le settimane di mail ipertiroidee a cui rispondere.

Sono un pugliese nato dalla focosa passione di due pugliesi, un pargolo cresciuto a trash movie di nascosto con un televisore 9 pollici a pile torcia mentre papà e mamma lo credevano nel sonno protetto del Signore.

Sono la saudade del catechismo imposto che mi ha portato a conoscere le leggi della polvere da sparo per ammorbidire la ripetitività dell’imposizione.

Sono un credente convinto del potere dell’essere umano.

Nel tempo che resta, quelle 16-20 ore al giorno, sono una persona con gli occhi aperti che dedica il proprio tempo, con pignoleria da battito cardiaco di colibrì, a soluzioni pratiche e produttive per le persone con cui mi rapporto.

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Dici che non credi nelle favole ma che preferisci scriverle: come funziona a livello ideativo ma anche brutalmente pratico?

50 gr di burro.

C’è sempre qualcuno che racconta e qualcuno che ascolta.

La formula magica l’ho trovata cercando di essere entrambi, narratore in ascolto.

Di pratico c’è il dattilografare e prendere appunti dall’inconsapevole che viene fuori grazie all’insonnia, all’eccessiva nutrizione da fritto o dalle visioni imperialistiche date dagli aperitivi senza buffet.

Di semi-pratico c’è la catalogazione dell’immaginifico dettato da quelle situazioni.

Se qualcuno ti raccontasse una storia e se si avesse uno spirito pronto all’arricchimento dei fatti, all’abbellimento dei particolari, al perfezionamento di quel che è, alla ricollocazione del dato affinché si trasformi in leggenda o pagine di storia, allora si avrebbero tutti gli attrezzi per poter costruire un mondo di fantasia con delle fondamenta che si avviluppano verso l’alto, come se fosse stato piantato un bagaglio di Mercedes classe E pieno di fagioli magici.

I giganti tra le nuvole ci aspetterebbero con le collane di fiori hawaiane.

No. Non credo alle favole, perché sono finite nel numero e la fantasia che le racconta dovrebbe avere un numero (innumerevolmente grande) che non conosciamo e non dovremmo mai conoscere.

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I tuoi nudi femminili hanno personalità molto spiccate: cosa vedi mentre scatti e quando decidi cosa raccontare?

150 gr di mortadella

Il tappetino di ingresso è la voglia di realtà. La verità si strofina più volte le scarpe prima di entrare ed ogni volta è strapulita, libera da ricomposizioni in circonferenza pubblicitarie e commerciali. Perché le persone che rappresento e che amo rappresentare, modelle professioniste o semi professioniste o ignari incroci di una serata troppo lunga, sono e devono essere per me sempre l’immagine più rappresentativa di se stesse.

È per questo forse che la personalità, nelle immagini che propongo, è forte: perché oltre all’idea alla base dell’immagine, c’è la persona che l’interpreta con la sua personalissima individualità (e nessun altro ci riuscirebbe all’infuori di lei).

La forza sta nel vedere tra le ciglia qualcosa che non è più stereotipato ma è la provincia dell’essere, dove si coltiva ancora tutto quello che agli altri serve per sopravvivere ma che non si usa più ricordare.

Durante lo shooting, le idee sembrano già formate. E invece interviene sempre la persona che ho davanti con la sua storia e la sua desiderata umanità a riposizionare l’idea su una composizione che reinventa l’idea stessa. Per questo non vorrei mai smettere di incontrare e rappresentare persone disposte a raccontare la propria storia (e che non sono lì solo per cercare un risultato – fotografico o commerciale).

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Cosa cerchi in un ritratto?

1 uovo.

In un qualsiasi ritratto la tecnica insegna che il punto di messa a fuoco va cercato sempre e solo nell’occhio. L’occhio è sconfinato ed è a mio avviso un po’ troppo generico come sfogo di un imbuto focale. All’interno del bulbo oculare va cercata la ragione di quella presenza.

L’occhio è il velcro di ogni ritrattista. Il positivo a cui gemellare un negativo. Non si cerca la piena condivisione di un pensiero ma il totale strappo tra un bacio morbido e il bruto schioppo sonoro che lo separa da quelle labbra.

È, per l’appunto, il tentacolo che ti stringe sapendo che ha come unico obiettivo quello di portarti giù nell’abisso più profondo, nel silenzio di non-luce che ancora non hai conosciuto. E solo dopo che le tendine dell’otturatore si sono chiuse ti accorgi che quello che sembrava profondamente nero è l’abbraccio di luce e conoscenza che speravi.

Lo sconosciuto che bussa alla porta te lo ritrovi sul divano a versarti il tè nella tazza e ad accarezzarti la voce con fughe di lunare furiosa verità.

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Come credi che si sia evoluto il tuo modo di lavorare, negli anni?

Una bustina di lievito.

Come qualunque attività conosciuta. L’esperienza insegna che non se ne sa mai abbastanza. Centrare la propria attenzione sull’aspettativa dell’incognita è l’ospite a cui offrire sempre un letto e coperte calde.

Ci sono momenti in cui si persegue un obiettivo pregresso e si aspettano i risultati. Non si può differire dalla balorda ricerca di una costanza. Ma i secoli, la noia e il vino insegnano che lo stupore è l’unico destino a cui si vuole dedicare le proprie pretese.

Ho iniziato fotografando ovali di viso che dovevano assorbire al meglio la luce che volevo imporgli. Ho proseguito definendo la luce e lasciando al “adesso qua” la scelta della rappresentazione più vivida. (I colori cambiano sul viso a seconda della sincerità espressa dal soggetto rappresentato).

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Dove stai andando?

Impastare farina, uovo, patate lesse passate, burro, lievito, un pizzico abbondante di sale.

Via. Sempre di più. Senza mai scappare da quello che immagino. E non mi importa di perdermi. Perché ho la fortuna di avere vicino persone che mi faranno sempre riconoscere di essere proprio dove voglio essere e, soprattutto, con una storia da raccontare allo sconosciuto accanto a me al bancone del bar o nella fila alla cassa dell’Esselunga. Quel che conta è aggiungere zucchero alla marmellata. La fetta di pane è pronta nelle mani di tutti come le orecchie che hanno bene tese. La tesi, il racconto e l’informazione è la sostanza nutritiva, nociva o addizionale, di cui tutti hanno bisogno per poter aggiunger qualcosa al proprio status.

Dopo aver impastato, spalmare con matterello e preparare dischetti (creati con bicchiere largo). Farcire i dischetti con un un po’ di mortadella, due cubetti di scamorza e due capperi). Richiudere con altrettanti dischetti superiori schiacciando bene all’estremità. Lasciar lievitare per 1-1,5 ore. Friggere con olio bollente per 2-3 minuti rigirando.

Le mie risposte non avranno aiutato nessuno ad essere migliori di prima. Ma conoscere la ricetta e mangiare le “Poppe di Venere” darà a tutti il senso della vita e del gusto delle cose costruite con le proprie mani.

Sporcatevi le mani di farina e costruite quello che che volete con un una manciata di poco come è sempre stato fatto. Per quello che sia, sarà sempre una parte di storia.

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